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Il senso della pittura

di LUCIANA RAPPO

1999

 

Il blu è denso, magmatico, mistico. La veste bianca: e il colore va a posarsi su una figura, le si spennella addosso, la cancella e la ricrea lasciando affiorare le mani, il collo, i piedi, raramente le labbra, mai uno sguardo. Oppure il rosa, spinto, provocante, poco indulgente ma anche disarmante e ancora questa forma-presenza bianca che cancella un’altra forma-assenza. È un ritratto, un’“istantanea” presa durante la pausa di un viaggio a dorso d’asino, anch’egli affiorante, ma non completamente, dalle pennellate rosa.

Altre volte sono fiori o piccoli alberi a bucare il velo della pittura: essi preesistono sulle stampe di un giornale o di una rivista, fanno parte di un altro mondo, il mondo reale dello scatto fotografico, delle immagini che si sfogliano e, giunte nel luogo del sacrificio, vengono sommerse dalla pittura, si perdono e scompaiono per riapparire dentro un’altra forma e un’altra storia.

La pittura, qui, è un luogo, vi si incontrano presenze e assenze, lo spazio dell’opera è un respiro continuo in cui la figura e lo sfondo, la pennellata e l’immagine seriale ricercano e trovano il loro equilibrio.

Il luogo fisico nello spazio dell’opera è anche il luogo mentale in cui sono calate le figure: sulle tavole su cui viene incollata la carta appaiono dunque frammenti di storie di Maria Vergine e di Angeli, di Avventi e fughe in Egitto, le figure diventano icone e la storia personale una storia collettiva.

Queste figure sono anche tracce di tempo e di tempo passato parlano i colori impiegati per gli sfondi, i blu e i rosa usati come i fondi oro della pittura del ’2-’300; le figure stesse in parte frammentarie, nel loro affiorare alla luce come se fossero state scoperte sotto strati di intonaco, sono ieratiche e geometriche, emanano primitività e purezza al tempo stesso e ricordano i personaggi femminili (la figura è sempre femminile nelle opere di Paracchini) cantati nella lirica provenzale e nei sonetti dei primitivi poeti italiani.

Ma nel contagio tra i linguaggi espressivi, nel modificarsi delle immagini con interventi minimali che seguono un preciso piano intellettuale, nella contemporaneità di presenza-assenza, passato-presente, luogo fisico-luogo mentale, si avverte che qualsiasi rimando a passati culturali è confluito in queste opere e si è trasfigurato.

L’arte, la pittura in questo caso, deve continuamente ricercare un proprio senso, incessantemente messa a confronto con immagini seriali, elettroniche, virtuali, fortissime, che stanno nel profondo del nostro inconscio collettivo come scenari delle nostre emozioni.

Nelle opere di Paracchini l’immagine pittorica s’impone cancellando un’altra immagine; e in questo processo svelando un mondo parallelo, ambiguo ed estremo, colmo di tensioni spirituali e sensuali al tempo stesso.

Il forte carattere concettuale di queste opere si mitiga nell’autoironia, per esempio, dei titoli delle opere; frammenti di canzoni melodiche captati casualmente.

Tutto questo ci emoziona. È successo a me, nell’estate del 1998 vedendo per la prima volta le piccole tavole di Riccardo durante la mostra “Qui, là, ovunque”.

Il mondo parallelo ed “altro” (che ci somiglia) ricreato in queste opere è, forse uno degli aspetti che andiamo cercando quando vorremmo capire che senso ha, oggi, un quadro.

 

Testo apparso su Juliet n° 94, Ott-Nov 1999.

La pittura, qui, è un luogo, vi si incontrano presenze e assenze, lo spazio dell’opera è un respiro continuo in cui la figura e lo sfondo, la pennellata e l’immagine seriale ricercano e trovano il loro equilibrio.

 

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