L’altra idea di sospensione
di ROBERTO BORGHI
2002
In altri tempi la si sarebbe forse definita una tendenza. Oggi quest’espressione – che possiede molteplici sfumature irritanti – è stata generalmente accantonata, ma permane nella sua accezione letterale, nella sua pretesa di descrivere una situazione che converge verso il medesimo clima percettivo. Il fenomeno di cui sto parlando si colloca a metà strada fra una dimensione surreale e una metafisica, nel senso più ampio di entrambi i termini, propendendo ora per l’una, ora per l’altra, a seconda dei contesti sociali e individuali con cui è messa in relazione. La parola che lo designa è la stessa di cui Gillo Dorfles, in un articolo pubblicato su Studio International nel 1969, si è servito per indicare quell’arte “microemotiva” e “situazionale” che si è puntualmente riproposta, con formule e protagonisti diversi, nei decenni successivi, sino a giungere al nostro: un’arte che, nelle parole del critico triestino, non “mira a una strutturazione definitiva e oggettualizzata degli elementi a sé stanti, ma alla creazione di stati d’animo, stati di tensione, situazioni di disagio, di peso, di contrasto”.
La ‘sospensione’ a cui fanno riferimento – con un’unanimità un po’ sospetta e alquanto noiosa – i critici che si occupano di arte giovane, e talvolta gli artisti stessi, è un termine con molteplici sfaccettature di senso, accomunate da un’accezione di fondo depositata nel suo significato originario. Il verbo ‘sospendere’, infatti, corrisponde innanzitutto all’azione di ‘far pendere dall’alto’, e di conseguenza a quella di ‘elevare da terra’, di ‘staccare’. La sospensione, anche nel lessico del giovane critico o del giovane artista, è in primo luogo un atteggiamento di distacco dalla realtà. Da qui in poi, tuttavia, a partire da questa considerazione lessicale le possibilità semantiche diventano numerose, anche se tendono a raggrupparsi in due versioni di riferimento.
La prima consiste nell’intendere la sospensione come manifestazione di estraneità, come forma non solo di distacco, ma anche di assoluto non coinvolgimento con la realtà. È la versione predominante, comunque onnipresente o, meglio, sottintesa nella giovane arte (non solo) italiana. Osservata in tale prospettiva, la sospensione è il riverbero estetico di una dinamica generazionale, forse anche epocale, chissà. In genere questa prima versione si esprime attraverso opere un po’ claustrofobiche, opere ‘stranianti’, come recita la terminologia ufficiale, da cui trapela uno stato d’animo vagamente angoscioso, una condizione emotiva non ben esplicitata: ‘sospesa’, appunto. Uno stato d’animo sostanzialmente alienato, ma di cui l’artista non sembra lagnarsi particolarmente, anzi, di cui sottolinea spesso il lato umoristico e paradossale, e talvolta anche quello poetico. Uno stato d’animo autocontemplativo, e anche autofinalizzato, che si esprime attraverso opere-testimonianza, attraverso descrizioni più o meno particolareggiate della propria condizione esistenziale.
La seconda versione del termine, ampiamente minoritaria fra i giovani artisti, si riferisce a un atteggiamento di ‘pausa’, di distacco temporaneo nei confronti della realtà, finalizzato a un contatto più gratificante con essa. A stabilire una cesura nei confronti del reale, nelle opere pervase da questo senso di sospensione, è il ‘disorientamento’, l’impossibilità di percepire le immagini secondo le categorie abituali. L’opera sembra identificarsi con l’anomalia che la caratterizza, con la sua diversità riguardo alle aspettative, con il fine, celato al proprio interno, di sovvertire la cosiddetta ‘normalità’. Ma lo scopo di tale sovvertimento consiste, a propria volta, nel posare uno sguardo ampliato su questa stessa dimensione, nel tentativo di valorizzarla, di riscoprirla e di renderla nuovamente vivibile: quella di ‘disorientare’ è quindi un’azione funzionale a un ‘riorientamento’ secondo nuove e più vaste coordinate.
A questa idea di sospensione possono essere ricondotte le opere di Riccardo Paracchini.
La realtà è un oggetto che, per essere affrontato, deve venire necessariamente circoscritto. Riccardo Paracchini, nella realizzazione dei suoi dipinti, parte da un dato reale, generalmente costituito da pagine di riviste in cui sono presenti le fotografie di alcune modelle. Nella loro trasposizione pittorica, tali pagine perdono ogni riferimento concreto, subiscono una sorta di trasfigurazione, sino a diventare immagini sospese, scene avvolte da un’aura metafisicheggiante.
La figura della modella subisce una regressione temporale e simbolica: si trasforma in una sagoma che sembra essere stata prelevata da un dipinto antico, in una presenza fantasmatica dall’identità incerta. I soggetti dei dipinti di Paracchini, infatti, indossano tutti il medesimo ‘abito’, se così lo si può definire, e non hanno volto: quasi a voler ribadire la mancanza di individualità, l’assoluto anonimato che li contraddistingue e che fa loro assumere un carattere universale e, persino, una funzione devozionale, all’interno di un culto profano dell’immagine. Eppure un senso di ‘sacro’, nel significato più ampio del termine, emana comunque da questi dipinti: forse perché c’è qualcosa di rituale nella ripetizione della medesima tipologia di sagoma, più o meno declinata nelle varianti dell’angelo e della madonna, qualcosa di estatico, di benefico, forse anche di prodigioso.
Per certi versi, queste opere sembrano delle traduzioni nel linguaggio pittorico della poetica stilnovista, o perlomeno del suo topos principale: la ‘donna beatificante’, la creatura perfetta e ineffabile a cui sono dedicate alcune fra le più celebri liriche medievali. La corrispondenza sembra essere totale: la figura femminile, come sottolinea lo stesso Paracchini, nel suo lavoro non viene ‘idealizzata’, ma risulta essere ‘ideale’, così come sostiene Guido Guinizzelli nella sua canzone-manifesto poetico “Al cor gentile”, in cui lo splendore della donna è causato dalla sua interiorità, e non da una proiezione esteriore; la trasfigurazione pittorica ha un effetto rivelatorio, manifesta questa condizione, la rende visibile. Ma non del tutto: c’è come una sommersa reticenza, un pudore davvero stilnovistico nella rappresentazione della donna, una vera e propria sospensione del discorso che permette di coniugare la sensualità dell’espressione con la purezza del silenzio.
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